lunedì 12 gennaio 2009

Poesia e impegno civile. Dante, Foscolo, Montale.

Esiste una poesia impegnata a difesa e richiesta dei diritti dell'uomo e della persona? E' arte vera?
Oggi non pochi risponderebbero subito di no ed anzi negherebbero in radice persino l'esigenza di porsi il quesito.

Inizio a tentare una risposta differente con una citazione che può apparire bizzarra.


Quella di Mao Ze Dong, il “Chairman Mao” della Rivoluzione Culturale. Oggi, almeno nel nostro emisfero è totalmente dimenticato, ma i suoi discorsi, e le loro trascrizioni nelle raccolte di Opere, un tempo erano famosissimi.

Guai ai vinti, si sa!

Eppure, dato l'argomento, ancora ci possono venire in mente con qualche utilità, le sue affermazioni alla Conferenza di Yenan del 1942 sull'arte e la letteratura.

Parlava, Mao, esattamente dell'argomento cui è dedicato il presente numero della nostra rivista; “il rapporto fra la cultura-nel nostro caso la letteratura- e le forme dell'impegno politico e civile".

Ci sono due aspetti, in ogni opera d'arte, quello culturale- diceva Mao- il valore artistico intrinseco, e l'orientamento politico dell'autore e dell'opera. Ogni classe sociale, ogni potere diremmo qui- privilegia- a suo dire- in ultima istanza questo secondo aspetto.

A ben guardare non aveva tutti i torti.

Come spiegare altrimenti il silenzio nel quale sono stati fatti cadere gli autori “politicizzati” ed anche le opere “politicizzate” di autori più poliedrici, dopo il crollo degli another countries dell'Est?

Non è accaduto solo ai comunisti, come Paul Eluard, il Quasimodo del dopoguerra e persino Neruda, ad esempio, ma anche agli impegnati dell'antichità e, nel mondo della letteratura moderna, ad ogni scrittura critica, anche la più disincantata e liberale, contenuta nelle opere di tanti fra i maggiori.

Una vera e propria damnatio memoriae ha velato gran parte della storia della cultura.

Sconfitto l'orizzonte del cambiamento, sia pure malato come ogni utopia, l'egemonia del potere esistente ha provveduto, ancora sta provvedendo , a cancellare persino il ricordo di intere biblioteche.

Ci si deve opporre a questo dimenticare? E come si può, con quali strumenti?

La risposta alla prima domanda è certamente, almeno a mio parere, positiva.

Perdere la memoria è tipico di chi invecchia, di chi non ha futuro. Inoltre è il presente -così insidiato dal cinismo ed il disprezzo verso il valore della vita umana- a chiamarci a riconsiderare le lezioni dell'arte engagée.

Come farlo dunque? Se non i medesimi ideali sembrano mutate radicalmente le concezioni del mondo e certo mutati sono i contesti, le forme del vivere.

Non si può leggere al presente il mandato politico della letteratura che abbiamo alle spalle. Non solo quella che ci parla dalla polvere dei secoli ma anche quella del vicinissimo '900.

Rileggiamo ancora Mao: se due sono i criteri, quello del valore artistico e quello dell'intenzione politica, se pure il primato è della seconda, senza il primo non solo non c'è arte vera ma propaganda, e persino c'è efficacia politica, civile dell'opera letteraria viene meno, anche se fosse del tutto rivolta alla denuncia e alla rivendicazione.

E' quindi la forza artistica ad ancorare il peso di un'opera, a costituirne la caratura.

Quindi, per tornare alla nostra domanda, solo riandando a quanto di più significativo la creatività poetica ha saputo realizzare sarà possibile rivivificarne il significato e la forza politica.

Propongo rapidissimamente tre esempi, e tanto diversi fra loro: Dante, Foscolo, Montale

Dante, innanzitutto. E' ancora sufficientemente noto il ruolo che la sua suprema poesia volgare, agli inizi della nostra letteratura, ha avuto nel fondare la lingua d'Italia e l'idea stessa di una unica nazione.

Ma quando si studia il Dante politico ci si imbatte in sillogi che ci presentano la sua inattualità, come già certificata all'epoca in cui visse, il suo alto-medievale ancoraggio all'idea di un Impero universale.

In realtà ciò che piu' conta è leggere Dante come figlio di un epoca di relativa libertà, dove ancora presenti sono i diritti e l'agire politico di cittadinanza, nei Comuni, un'età ultima ed aggredita, prima del progressivo naufragio d'Italia nel servaggio e nella lateralità rispetto alle grandi correnti della storia europea.

Qui la radice della sua indimenticabile affermazione sul destino dell'uomo, compiuto solo tendendo a virtù e conoscenza.

A virtu' si intenda, non solo a libera conoscenza.

Virtù, probità personale e pubblica.

Il mito di Ulisse in Dante è proseguito e rovesciato, è noto.

Non è più il ritorno ad Itaca il punto, ma la ripartenza e la sfida ai confini della terra. La sconfitta dell'eroe non conduce il poeta a negarne l'impossibile ansia di libertà.

Anzi proprio quando è nella sconfitta di fronte all'inconoscibile Ulisse, l'uomo, scopre nel tentare di andare oltre prigioni e confini, religioni e oceani, il proprio essere “umano”.

Altrimenti a cosa servirebbe l'impronta di Dio, essere fatti a sua immagine e somiglianza.

E' forse la più alta rivendicazione del primario diritto, quello ad essere liberi e quindi in perpetuo viaggio di avanzamento, anche se temerario e senza vittoria.

Dante politico, uomo di parte, è poeta eterno non "nonostante" la sua scelta di battaglia e di esilio, non mercè i recuperati orari dell'ozio, dopo la stagione dei combattimenti, ma "per" la propria altissima levatura intellettuale che è tutt'uno con l'interesse per l'uomo, la storia, il mondo.

Scorriamo un calendario di secoli.

In Italia viene l'ora di nuova libertà. Arrivano i colori bianco rosso e blu dell'esercito rivoluzionario e popolare della Francia.

Foscolo è fra i tanti che partecipano all'ora. Con la poesia, la polemica la partecipazione diretta agli eventi di guerra.

Di Ugo Foscolo un tempo si studiava, oggi non so, l'amor di patria, l'adesione a Napoleone e la cocente disillusione “dopo Campoformio”, come ridirà Roberto Roversi.

Anche qui la storia di una sconfitta. Ancora più nota era la sua difesa del retaggio cristiano della tradizione di seppellire i morti senza anonimato. C'è una vicinanza con il Parini, anch'egli democratico, che protesta, contro i furori dell'illuminismo di potere, difendendo la presenza del Crocifisso negli uffici (“Se non entra il cittadino Cristo, non entra nemmeno il cittadino Parini”).

Il carme dei “Sepolcri” è stato a lungo una pietra miliare degli studi scolastici per il suo carattere di supposta, ancorchè indubbiamente giustificata, “reazione” al moderno del suo tempo.

Leggiamo meglio. Il carattere di priorità dell'impegno, così tipico di Foscolo, non viene mai meno.

Fra le motivazioni della reazione sono le “egregie cose” alle quali inducono le “urne de'forti”, alle quali va' data collocazione e riconoscibilità imperitura.

Cose egregie, testimonianze nella vita pubblica, fino all'eroismo.

Motivazione forse debole, forse addirittura insincera, più diretta e lirica era la motivazione della difesa dell'integrità del rito della morte, per un grande poeta.

Indicativa tuttavia di una più complessa identità politico – culturale del poeta, tipicamente italiana, e forse più forte, non più debole del negazionismo francese.

Si tratta per Foscolo di trovare una via alla rivoluzione democratica che sia erede della millenaria cultura umanista, che trovi nel classicismo non divinità "false e bugiarde" risuscitate in opposizione alle Chiese, ma la forza imperitura di invarianti culturali capaci di dare sostanza alla vita della nazione risvegliata a libertà, di fondarla più solidamente.

A ben vedere un tema mai più dismesso dalla più alta ricerca culturale italiana, che sarà ripreso con ben altra consapevolezza teorica dal Cuoco e poi nel '900 da Gramsci. Ma a ognuno il suo mestiere e quello di Foscolo era scrivere versi.

La vicenda italiana giunse a nuova storia. Finalmente divenne Stato. Ma il nazionalismo democratico trasmutò ben presto in volontà di potenza. Nel generale crollo delle democrazie parlamentari, dopo la carneficina del '14-'18, il nostro paese, che spesso si trova ad essere laboratorio dell'abisso, creò, dalla frustrazione e dal rovesciamento del proprio motivo nazionale, un nuovo totalitarismo, brutale e negatore della libertà, innanzitutto della libertà della cultura.

Il fascismo e poi il nazismo non ebbero avversari sufficenti, neanche fra gli intellettuali.

Ma certo non ne mancarono.

Per la forza di una scelta di militanza diretta e generosa, i più, per la dirittura morale di una semplice, coraggiosa, non adesione, alcuni.

Un ritiro dall'orrore che era già tanto.

Eugenio Montale ha tracciato con estrema lucidità, in “Piccolo testamento”, in "Primavera hitleriana" e in altri testi, i confini della sua scelta.

Una laicità assoluta, rifiuto di ruoli clericali, "di chiesa e di officina", per il poeta.

Ma una laicità partecipe fino in fondo del dramma dell'uomo, della sua finitezza che nessun trascendimento può oscurare.

Quanti sedicenti laici, bianchi come sepolcri, hanno nella nostra storia concepito la propria autolimitazione come fuga dal dovere della testimonianza.

Non Montale. Il suo richiamo più forte, già nella giovanile esperienza dell'ambiente gobettiamo: “solo una cosa sappiamo: cio' che non siamo, cio' che non vogliamo” lo indica con chiarezza.

Non è poco, e' moltissimo segnare dove non si vuole andare, quando si vive nel totalitarismo. La cifra del suo “non essere” è il rifiuto del compromesso con la brutalità del fascismo.

Cercare un buco nella rete della storia, come mirabilmente scrive Montale è insieme impossibile, allora, e necessario all'uomo per essere tale.

Come fu per l' Ulisse di Dante tentare il mare oltre le colonne d'Ercole.

La scelta della non adesione al regime, ai regimi, è adesione, invece, alle ragioni dell'uomo e alla sua tragedia. La poetica che ne deriva è una radicale alternativa ad ogni prevalere della retorica.

Noi, che pure siamo nel tempo delle parole moltiplicate e impotenti, possiamo riaffermare il profondo legame fra poesia e civiltà seguendo orme che non smarriscono il segno.

Così con Dante, con Foscolo, con il vicino e così esigente Montale. Il Montale che ci obbliga, per essere dei suoi , il simile che riconosce il simile, ancora a non aderire. Impegno difficilissimo in un'epoca in cui l'adesione richiesta dal potere è quella all'ideologia del chiaroscuro, di una compartecipazione a tutto anche all'orrore di mille "guerre giuste".



Davide Ferrari

www.davideferrari.org