sabato 27 marzo 2021

WIDMANN E NOI DI FRONTE A DANTE.

Un articolo dello scrittore e traduttore tedesco Arno Widmann, critico verso le interpretazioni assolutistiche di Dante, con il primato e l'assoluta originalità che gli si tributano in via automatica, ha ricevuto risposte dall'Italia.

Tuttavia la maggior parte delle accuse a Dante attribuite a Widmann non sono mai state da lui scritte. Il difetto di Widmann un altro. E' giusto vedere qualunque scrittore o artista, anche i maggiori, inserito nel flusso della storia non isolarlo e mummificarlo per farne un dio poco interessante. Ma il metodo per contestualizzare un classico difficilmente si può ritrovare in ripetuti confronti con altri autori, vicini o lontani. Widmann pare invece ricorrere frequentemente a virtuali competizioni a due, Dante vs Maometto, Dante vs i trobadori provenzali, Dante vs Shakespeare. Queste competizioni, questi impossibili "slalom paralleli" dovrebbero verificare la consistenza del primato dantesco ed i suoi limiti. Non convincono. Soprattutto quando la corsa proposta è con autori che hanno vissuto Un'epoca del tutto differente e utilizzato una lingua del tutto differente. Ad esempio, secondo Widmann Dante indulge in giudizi morali su tutte le figure che incontra separando i buoni dai cattivi. Viceversa Shakespeare sarebbe giunto alla più profonda etica del dubbio irrisolvibile. Sono parole mie. Certamente Dante è uomo che reclama la libertà dell'evo medio che sta tramontando e delle sue ispirazioni alla purezza mentre Shakespeare vive nelle propaggini di una modernità che si annuncia in uno sviluppo fortemente influenzato da un Governo reale che per unificare una nazione, o più, come nel caso britannico, tende ad affermare la bontà assoluta del potere e quindi la sua emancipazione dal moralismo.
Ma proprio su questo punto le "torri" creative di Dante e di Shakespeare, le loro altezze vertiginose ci riportano tutto il fuoco della perennità delle contraddizioni dell'intera vicenda umana e vanno ben oltre lo schema generale che pure è loro proprio.
Ulisse si conduce all'empietà e alla morte per la insopprimibile volontà di scoprire ma alle sue parole è riferibile una delle definizioni assolute del retaggio umano. Parole dette all'Inferno, da un condannato ma che rappresentano l'uomo nella sua più vera e nobile attitudine. Dove dunque il semplicismo e la nettezza insostenibile delle divisioni di Dante fra buoni e cattivi che Widmann querela? E Shakespeare, mentre ci avverte con il suo personaggio che il mondo è più vasto di ogni ideologia e gli fa esprimere anche di fronte al più orrendo dei delitti il dubbio e non la volontà senza l'oscuro, senza il profondo, pure conduce Amleto alla giustizia, contro ogni calcolo, fino alla morte, fino alla rovina della dinastia e del Regno. Ecco allora la duplice natura dei classici. Figli del loro tempo e inintelligibili senza i suoi caratteri ma capaci di accompagnarci in fronte alla natura dell'uomo condannato in tutti i tempi a colpe e responsabilità senza le quali uomo non sarebbe.
Widmann, come tutti noi, potrà dunque liberare la sua lettura di Dante dal bosco animato e maligno dei confronti, mortifero come la foresta che avanza sul maniero di Macbeth, e seguire il poeta fino agli occhi dei suoi personaggi che vogliono mirare, si sa, e cielo e terra.




martedì 19 marzo 2019

PASOLINI E IL '68.

PASOLINI E IL '68. 
UN PENSIERINO DI FRONTE ALL' ENNESIMO COMMENTATORE. 

Chi poco conosce ma ha molta volontá di distanziarsi dalla sinistra, se é piú o meno un intellettuale, cita il Pasolini dei noti versi su Valle Giulia. Ma Pasolini vivente difficilmente si sarebbe lasciato usare per colpire il '68. Lui che ha compiuto in quegli anni, e nei seguenti, atti inequivoci di solidarietá senza appartenenza verso quel movimento, le generazioni, le classi di etá, che lo vissero e quelle che ne furono immediate discendenti.
Inutile qui sperare di chiarire.
Pasolini era cosciente sia della sua anima borghese sia delle sue visioni. Quelle che resuscitavano ció che nell'antico e persino nella tradizione poteva rivoltarsi allo scempio dell'industrialismo sfruttatore. Affermava il suo riflettere, lo argomentava, lo trasfondeva in ogni mezzo moderno, dal rotocalco al cinema alla televisione. Ne conosceva tuttavia il perimetro, la stessa negazione. Parlava anche a lui, e anche di lui era parte, la voce del corvo di "Uccellacci ed uccellini", che inquadra il mondo e le piccole cose che accadono a Totò e Ninetto con le definizioni della lotta di classe e della dialettica della storia, Una coscienza, la sua, che utilizzava le categorie narxiane con piú destrezza di tanti professionisti della filosofia e di altri, allora numerosi, professionisti delle rivoluzioni altrui. Una coscienza del proprio io che lo armava della sua ribadita sinceritá, che annullava il banale del suo irrazionalismo, che lo rendeva ante litteram distante da ogni riflusso.

mercoledì 27 gennaio 2010

Poesia civile. La dimensione internazionale. L'Italia

"La poesia in Italia oggi e i percorsi possibili di riflessione e resistenza"

con Davide Ferrari, Gregorio Scalise, Alberto Masala, Bruno Brunini, Sergio Rotino, Vincenzo Bagnoli, Anna Zoli, Chiara Cretella, Serenella Gatti Linares, Paola Tosi, Graziella Poluzzi, Leila Falà.

in occasione della presentazione del libro di Carlo Bordini
"Non è un gioco.
Appunti di viaggio sulla poesia in America Latina"
Luca Sossella editore

Incontro a cura di Loredana Magazzeni e Pino De March
Mercoledì 27 Gennaio 2010
CENTRO SOCIALE XM-24
Via Fioravanti 24, Bologna

Dall'intervento di Davide Ferrari:
"Aumenta, sempre di più, la produzione poetica. Non è un male , perchè indica la ricerca, persino a livello di massa e oltre le consuete età dell'adolescenza e della giovinezza, delle possibilità espressive del linguaggio poetico per trovare vie di comunicazione e di riflessione. E' vero però che si ha l'impressione di una vera e propria dissipazione qualitativa.
E' un fenomeno che possiamo osservare in tutte le forme artistiche. Prima la riproducibilità tecnica ha tolto centralità all'arte, ed anche alla poesia, oggi la dematerializzazione della riproducibilità sembra capace di liquefare il senso, di annullare ogni capacità di verità della parola. Siamo in una civiltà dove la dematerializzazione del libro è metafora della perdita di ogni possibilità di verificare le proprie asserzioni. Perdendo ipotesi e scommesse, la capacità cioè di puntare su un pensiero critico, la parola si annienta e la ricerca dello scrivere in poesia diviene angosciosa ripetizione di banalità incapaci di dare espressione anche ai sentimenti più immediati dell'animo, dell'interiorita'.
Fare il percorso all'indietro, passare dalla quantità alla qualità è forse impossibile, eppure sento che bisogna frequentare anche la quantità, rischiare i luoghi più deboli, persino esibizionistici, per portare ancora la potenziale forza della poesia ad essere considerata.
Per questo il piccolo ma interessantissimo libro di Bordini è utile. Non solo ci porta in una dimensione , quella colombiana, dove la poesa civile ha ancora una grande forza ma anche dove la scommessa del pensiero-talvolta in forme ingenue ma non per questo prive di forza-non è stata dimessa.
La dimensione internazionale della poesia è proprio uno di quei materiali che noi poeti italiani, critici di un presente che non accettiamo, dobbiamo portare in ogni luogo della poesia, anche quelli più banalmente quantitativi. Dobbiamo insistere e sperare che la parola, l'emozione, possa ancora connettere, come allo scatto di un link, una incompiuta prova di autoletteratura, e sappiamo che "mostrare la quale" è cio' che porta i più alle sedi dove la poesia è letta ed ascoltata, con la voglia di una conoscenza più vera e leale, conscia dei propri limiti, aperta ad un orizzonte drammatico e perciò più vero, quale ogni verso di "poesia reale" è capace di proporci. "

lunedì 12 gennaio 2009

Poesia e impegno civile. Dante, Foscolo, Montale.

Esiste una poesia impegnata a difesa e richiesta dei diritti dell'uomo e della persona? E' arte vera?
Oggi non pochi risponderebbero subito di no ed anzi negherebbero in radice persino l'esigenza di porsi il quesito.

Inizio a tentare una risposta differente con una citazione che può apparire bizzarra.


Quella di Mao Ze Dong, il “Chairman Mao” della Rivoluzione Culturale. Oggi, almeno nel nostro emisfero è totalmente dimenticato, ma i suoi discorsi, e le loro trascrizioni nelle raccolte di Opere, un tempo erano famosissimi.

Guai ai vinti, si sa!

Eppure, dato l'argomento, ancora ci possono venire in mente con qualche utilità, le sue affermazioni alla Conferenza di Yenan del 1942 sull'arte e la letteratura.

Parlava, Mao, esattamente dell'argomento cui è dedicato il presente numero della nostra rivista; “il rapporto fra la cultura-nel nostro caso la letteratura- e le forme dell'impegno politico e civile".

Ci sono due aspetti, in ogni opera d'arte, quello culturale- diceva Mao- il valore artistico intrinseco, e l'orientamento politico dell'autore e dell'opera. Ogni classe sociale, ogni potere diremmo qui- privilegia- a suo dire- in ultima istanza questo secondo aspetto.

A ben guardare non aveva tutti i torti.

Come spiegare altrimenti il silenzio nel quale sono stati fatti cadere gli autori “politicizzati” ed anche le opere “politicizzate” di autori più poliedrici, dopo il crollo degli another countries dell'Est?

Non è accaduto solo ai comunisti, come Paul Eluard, il Quasimodo del dopoguerra e persino Neruda, ad esempio, ma anche agli impegnati dell'antichità e, nel mondo della letteratura moderna, ad ogni scrittura critica, anche la più disincantata e liberale, contenuta nelle opere di tanti fra i maggiori.

Una vera e propria damnatio memoriae ha velato gran parte della storia della cultura.

Sconfitto l'orizzonte del cambiamento, sia pure malato come ogni utopia, l'egemonia del potere esistente ha provveduto, ancora sta provvedendo , a cancellare persino il ricordo di intere biblioteche.

Ci si deve opporre a questo dimenticare? E come si può, con quali strumenti?

La risposta alla prima domanda è certamente, almeno a mio parere, positiva.

Perdere la memoria è tipico di chi invecchia, di chi non ha futuro. Inoltre è il presente -così insidiato dal cinismo ed il disprezzo verso il valore della vita umana- a chiamarci a riconsiderare le lezioni dell'arte engagée.

Come farlo dunque? Se non i medesimi ideali sembrano mutate radicalmente le concezioni del mondo e certo mutati sono i contesti, le forme del vivere.

Non si può leggere al presente il mandato politico della letteratura che abbiamo alle spalle. Non solo quella che ci parla dalla polvere dei secoli ma anche quella del vicinissimo '900.

Rileggiamo ancora Mao: se due sono i criteri, quello del valore artistico e quello dell'intenzione politica, se pure il primato è della seconda, senza il primo non solo non c'è arte vera ma propaganda, e persino c'è efficacia politica, civile dell'opera letteraria viene meno, anche se fosse del tutto rivolta alla denuncia e alla rivendicazione.

E' quindi la forza artistica ad ancorare il peso di un'opera, a costituirne la caratura.

Quindi, per tornare alla nostra domanda, solo riandando a quanto di più significativo la creatività poetica ha saputo realizzare sarà possibile rivivificarne il significato e la forza politica.

Propongo rapidissimamente tre esempi, e tanto diversi fra loro: Dante, Foscolo, Montale

Dante, innanzitutto. E' ancora sufficientemente noto il ruolo che la sua suprema poesia volgare, agli inizi della nostra letteratura, ha avuto nel fondare la lingua d'Italia e l'idea stessa di una unica nazione.

Ma quando si studia il Dante politico ci si imbatte in sillogi che ci presentano la sua inattualità, come già certificata all'epoca in cui visse, il suo alto-medievale ancoraggio all'idea di un Impero universale.

In realtà ciò che piu' conta è leggere Dante come figlio di un epoca di relativa libertà, dove ancora presenti sono i diritti e l'agire politico di cittadinanza, nei Comuni, un'età ultima ed aggredita, prima del progressivo naufragio d'Italia nel servaggio e nella lateralità rispetto alle grandi correnti della storia europea.

Qui la radice della sua indimenticabile affermazione sul destino dell'uomo, compiuto solo tendendo a virtù e conoscenza.

A virtu' si intenda, non solo a libera conoscenza.

Virtù, probità personale e pubblica.

Il mito di Ulisse in Dante è proseguito e rovesciato, è noto.

Non è più il ritorno ad Itaca il punto, ma la ripartenza e la sfida ai confini della terra. La sconfitta dell'eroe non conduce il poeta a negarne l'impossibile ansia di libertà.

Anzi proprio quando è nella sconfitta di fronte all'inconoscibile Ulisse, l'uomo, scopre nel tentare di andare oltre prigioni e confini, religioni e oceani, il proprio essere “umano”.

Altrimenti a cosa servirebbe l'impronta di Dio, essere fatti a sua immagine e somiglianza.

E' forse la più alta rivendicazione del primario diritto, quello ad essere liberi e quindi in perpetuo viaggio di avanzamento, anche se temerario e senza vittoria.

Dante politico, uomo di parte, è poeta eterno non "nonostante" la sua scelta di battaglia e di esilio, non mercè i recuperati orari dell'ozio, dopo la stagione dei combattimenti, ma "per" la propria altissima levatura intellettuale che è tutt'uno con l'interesse per l'uomo, la storia, il mondo.

Scorriamo un calendario di secoli.

In Italia viene l'ora di nuova libertà. Arrivano i colori bianco rosso e blu dell'esercito rivoluzionario e popolare della Francia.

Foscolo è fra i tanti che partecipano all'ora. Con la poesia, la polemica la partecipazione diretta agli eventi di guerra.

Di Ugo Foscolo un tempo si studiava, oggi non so, l'amor di patria, l'adesione a Napoleone e la cocente disillusione “dopo Campoformio”, come ridirà Roberto Roversi.

Anche qui la storia di una sconfitta. Ancora più nota era la sua difesa del retaggio cristiano della tradizione di seppellire i morti senza anonimato. C'è una vicinanza con il Parini, anch'egli democratico, che protesta, contro i furori dell'illuminismo di potere, difendendo la presenza del Crocifisso negli uffici (“Se non entra il cittadino Cristo, non entra nemmeno il cittadino Parini”).

Il carme dei “Sepolcri” è stato a lungo una pietra miliare degli studi scolastici per il suo carattere di supposta, ancorchè indubbiamente giustificata, “reazione” al moderno del suo tempo.

Leggiamo meglio. Il carattere di priorità dell'impegno, così tipico di Foscolo, non viene mai meno.

Fra le motivazioni della reazione sono le “egregie cose” alle quali inducono le “urne de'forti”, alle quali va' data collocazione e riconoscibilità imperitura.

Cose egregie, testimonianze nella vita pubblica, fino all'eroismo.

Motivazione forse debole, forse addirittura insincera, più diretta e lirica era la motivazione della difesa dell'integrità del rito della morte, per un grande poeta.

Indicativa tuttavia di una più complessa identità politico – culturale del poeta, tipicamente italiana, e forse più forte, non più debole del negazionismo francese.

Si tratta per Foscolo di trovare una via alla rivoluzione democratica che sia erede della millenaria cultura umanista, che trovi nel classicismo non divinità "false e bugiarde" risuscitate in opposizione alle Chiese, ma la forza imperitura di invarianti culturali capaci di dare sostanza alla vita della nazione risvegliata a libertà, di fondarla più solidamente.

A ben vedere un tema mai più dismesso dalla più alta ricerca culturale italiana, che sarà ripreso con ben altra consapevolezza teorica dal Cuoco e poi nel '900 da Gramsci. Ma a ognuno il suo mestiere e quello di Foscolo era scrivere versi.

La vicenda italiana giunse a nuova storia. Finalmente divenne Stato. Ma il nazionalismo democratico trasmutò ben presto in volontà di potenza. Nel generale crollo delle democrazie parlamentari, dopo la carneficina del '14-'18, il nostro paese, che spesso si trova ad essere laboratorio dell'abisso, creò, dalla frustrazione e dal rovesciamento del proprio motivo nazionale, un nuovo totalitarismo, brutale e negatore della libertà, innanzitutto della libertà della cultura.

Il fascismo e poi il nazismo non ebbero avversari sufficenti, neanche fra gli intellettuali.

Ma certo non ne mancarono.

Per la forza di una scelta di militanza diretta e generosa, i più, per la dirittura morale di una semplice, coraggiosa, non adesione, alcuni.

Un ritiro dall'orrore che era già tanto.

Eugenio Montale ha tracciato con estrema lucidità, in “Piccolo testamento”, in "Primavera hitleriana" e in altri testi, i confini della sua scelta.

Una laicità assoluta, rifiuto di ruoli clericali, "di chiesa e di officina", per il poeta.

Ma una laicità partecipe fino in fondo del dramma dell'uomo, della sua finitezza che nessun trascendimento può oscurare.

Quanti sedicenti laici, bianchi come sepolcri, hanno nella nostra storia concepito la propria autolimitazione come fuga dal dovere della testimonianza.

Non Montale. Il suo richiamo più forte, già nella giovanile esperienza dell'ambiente gobettiamo: “solo una cosa sappiamo: cio' che non siamo, cio' che non vogliamo” lo indica con chiarezza.

Non è poco, e' moltissimo segnare dove non si vuole andare, quando si vive nel totalitarismo. La cifra del suo “non essere” è il rifiuto del compromesso con la brutalità del fascismo.

Cercare un buco nella rete della storia, come mirabilmente scrive Montale è insieme impossibile, allora, e necessario all'uomo per essere tale.

Come fu per l' Ulisse di Dante tentare il mare oltre le colonne d'Ercole.

La scelta della non adesione al regime, ai regimi, è adesione, invece, alle ragioni dell'uomo e alla sua tragedia. La poetica che ne deriva è una radicale alternativa ad ogni prevalere della retorica.

Noi, che pure siamo nel tempo delle parole moltiplicate e impotenti, possiamo riaffermare il profondo legame fra poesia e civiltà seguendo orme che non smarriscono il segno.

Così con Dante, con Foscolo, con il vicino e così esigente Montale. Il Montale che ci obbliga, per essere dei suoi , il simile che riconosce il simile, ancora a non aderire. Impegno difficilissimo in un'epoca in cui l'adesione richiesta dal potere è quella all'ideologia del chiaroscuro, di una compartecipazione a tutto anche all'orrore di mille "guerre giuste".



Davide Ferrari

www.davideferrari.org

martedì 29 aprile 2008

PREMESSE PER UNA DIDATTICA DELLA POESIA.

PREMESSE PER UNA DIDATTICA DELLA POESIA.
Appunti poco popolari di un poeta.
di Davide Ferrari

Alcuni anni orsono l'allora Presidente della Camera dei Deputati Irene Pivetti ("Oh tempo-ra....") prese l'iniziativa di invitare a Montecitorio alcuni fra i principali "grandi viventi" della poesia italiana. Al termine del conto, l’iniziativa fu positiva.
Curiosa tuttavia la sigla che la RAI dedicò alla trasmissione TV dell'evento: immagini di gabbiani svolazzanti e di nuvole allo sfumo.
Certo Pivetti oltre non poteva andare. Ma è, forse, più generale pensare la poesia come qualco-sa fra lo spirituale e il trash. Anche nella scuola l'opinione diffusa è che la poesia sia un incom-primibile moto dell'animo e nulla più. Qualcosa che può essere insegnato solo da un professore stile "attimo fuggente". Un piccolo guru capace, senza mediazioni intellettuali oltre le proprie, di fare indossare ali di gabbiano ai ragazzi.
D'altra parte, al polo apparentemente opposto, la tradizione idealistica gentiliana, ancora così presente, consegnava alla poesia, nella scuola, una funzione - a ben guardare - poco dissimile. In quella visione la poesia, perla della cultura umanistica, è qualcosa che deve segnare il conte-nuto dell'educazione di una classe dirigente ed elitaria, la sola capace di afferrare l'emozioni più intime e profonde. Agli esclusi per destino e censo, nella scuola primaria, non resta che memo-rizzare e memorizzare.
Altro non c'è. Non stupisce che, ancora oggi, dati i punti di partenza e le egemonie in campo, poco sia radicata una "didattica della poesia".
Assistiamo a un vasto movimento nelle scuole, basta scorrere le occorrenze su Google per ac-corgersene, ma teoria poco si produce, i teorici sfuggono al compito.
E' possibile invece un punto di vista diverso che, ben compreso, possa essere il punto di parten-za per disegnare almeno alcuni elementi iniziali per un insegnamento dell'espressione poetica .
Si può afferrare un capo del filo e, da lì tirando e svolgendo, sbrogliare l'intricata matassa fra compiti di insegnamento e irriducibilità della creazione poetica..
Innanzi tutto poniamo le domande di sempre, quelle che Eugenio Montale ebbe a ripetere nel "discorso del Nobel" nell'ormai lontano '75. Che cos'è la poesia e se un senso possiede- se ne possiede- nella modernità?
Se "è del poeta il fin la meraviglia" come testimoniava il Marino, cominciamo con un'affer-mazione che, ancora oggi, può sorprendere: La poesia è forma..
Ciò che rende l'universale l'Infinito di Leopardi non è il suo contenuto. Se qualcuno scrive che, abitando nei pressi di Recanati è solito recarsi un colle e da lì guardare fin dove gli è possibile, non ci trasmette molto. La differenza fra queste parole e la straordinaria profondità del poeta universale è data dalla forma, dal meccanismo con il quale sono articolate le parole, oltre che dalla scelta, fra mille sinonimi, di certe parole al posto di altre, altrettanto possibili e significanti.
La parola poetica è qualcosa oltre la parola del quotidiano, per il potere particolare che ad es-sa conferisce la forma. Innanzitutto per il suo contenuto di musicalità e ritmo, per la caratteristi-ca di poter sospendere il tempo e di mutare la natura e la funzione del luogo nel quale la poesia viene prodotta o al quale ci riconduce.
Fin dalla più antica espressione umana, (par di vedere il piede dell’avo battere il ritmo sul ter-reno, mentre la parola che gli esce di bocca acquista -con la pronuncia e il metro- un valore e una forza specifici), la parola poetica avviene in e/o crea un luogo particolare.
Può trattarsi di un luogo naturale, sia esso il bosco dove il nume appare, sia esso il colle del dolore di Leopardi, oppure di un luogo sociale, una raccolta di uomini attorno a un'idea, a una preghiera, ad un evento o anche soltanto il recupero –che ogni volta si ripete e accomuna-dell'emozione di un classico nel ripercorrerlo leggendo. Altrimenti sarà un luogo dell'anima, per così dire, la creazione di un momento e di un'occasione dove la mente del lettore può ad-divenire ad un'astrazione di particolare intensità, tale da delocalizzarlo rispetto alla consuetudi-ne.
In sostanza la forma poetica è un codice fra il poeta e chi lo ascolto o lo legge. Quindi se la poesia è ispirazione, diciamo pure autonoma genialità, si esprime però con caratteristiche di necessaria esattezza senza le quali non è data.
Ma il partire dalla forma e dal termine di “codice” non vuol dire, in alcun modo, privilegia-re gli aspetti tecnico-letterari in un accostamento alla poesia.
Al contrario.
Il “codice” muta nel tempo e si impiega ad esprimere, così come capita a tutte le principali at-tività artistiche, ma con una forza di sintesi che ha nella letteratura soltanto la poesia , un tempo, un contesto storico, un paradigma culturale di cui il poeta è parte e di cui diviene, nella sua scrittura più alta, un tratto di esemplarità.
Ci avviciniamo un poco a temi che fondano un insegnamento.
Il poeta è sè stesso ma è nel legame con una "situazione", come asseriva il De Sanctis.
Gli antichi identificavano nell'intero arco della vita di un autore, di un artista, la cosiddetta "età della fioritura", gli anni della produttività felice della propria arte. Andiamo oltre e nell'età della fioritura poniamo mente ad una più ristretta "età dell'esemplarità". Saranno quegli “anni”, tal-volta un epoca, talvolta poco più di istanti, nei quali un poeta raggiunge la capacità di rappre-sentare, forse meglio di chiunque altro il paradigma culturale della sua età.
E' quel nocciolo della sua arte nel quale si esprime maggiormente il legame con la "situazio-ne", ma nel senso di una particolare raggiunta libertà di interpretarla.
Ciò che costruisce un poeta classico è proprio quel nocciolo, la sua estensione, la sua possibile comprensione, di generazione in generazione, da parte di un pubblico tendenzialmente univer-sale e mai esauribile.
La poesia come “parola potenziata”, il poeta come segnale del suo tempo, il "classico" co-me ineliminabile ed eterno segnale di "grado" nel succedersi dell'avventura umana: questi tre elementi non possono essere dimenticati, espunti, neanche nella modernità.
Con Montale dunque possiamo affermare, sia pure cercado di ricordare la sua ironia e il suo laico dubitare, che la poesia non può essere cancellata dalla nostra vita, neanche nella contem-poraneità turbinosa che attraversiamo.
Certamente il contemporaneo sembra a volte "il tempo del nulla". Quel "Nulla" che distrugge-va il regno di Fantasia della “Storia infinita” di Michael Ende.
Sono, i nostri, gli anni di un procedere, che pare invincibile, della crisi della funzione sociale dell'arte. Sono gli anni nei quali sembra espandersi sempre maggiormente la riproducibilità tecnica di ciò che un tempo era affidato solo all'opera dell’arsenale degli artisti.
Se, quando ne scriveva Benjamin, la pittura lasciava i suoi campi tecnici alla fotografia e al ci-nema oggi sono gli ipertesti e, pare, una grafica che presto potrà vivere incorporea persino dentro i nostri occhi, non solo nella nostra visualità, a conquistare il terreno.
Così per la poesia i luoghi di espressione della parola si sono moltiplicati a milioni e milioni, dai tubi catodici alle lavagne di internet.
La poesia e il poeta appaiono quindi con una funzione sociale indebolita e comunque meno ri-conosciuta dall'opinione pubblica e dal potere. Ciò conduce, come noto ad un isolamento della poesia d'arte, e, nel contempo all'esplosione quantitativa delle scritture individuali.
Quelle scritture figlie del tempo libero, diceva Montale, e, diremmo noi, di un disagio che non spetta più soltanto al figlio del conte Monaldo esprimere ma ad ogni "adolescente", anche trentenne, ai maestri di scuola come alle segretarie, alle casalinghe separate come agli eterni ragazzi in cerca dell'emozione irripetibile.
Sono, le loro scritture, un segno dell'epoca ma anche della sua debole autocoscienza collettiva . Quei fogli riempirebbero mille biblioteche di Alessandria, quei fogli neppure la catastrofe ato-mica potrebbe eliminare, come il poeta “premio Nobel “ci ricordava, mentre bastò un falò di pochi giorni a cancellare lo scrigno della classicità in quell'antico archivio del mondo della città del Faro.
Tuttavia , ripetiamo, seppure indebolita, la funzione della poesia è ineliminabile. Altrettanto ineliminabile sarà quindi il suo posto nella scuola, se scuola sarà.
Fondati motivi lo confermano. La forma della poesia, lo abbiamo già scritto, contiene verbalità e non verbalità, è un codice di particolare potere che allarga e mescola i linguaggi, come escluderlo dalla scuola? Come escluderlo dalla scuola primaria, laddove può rappresentare una sorgente della genesi stessa delle capacità di linguaggio del bambino e della bambina? Ma come escluderla anche nella scuola secondaria, dove le sue note di sinteticità sembrano parti-colarmente adatte alla comprensione ed all'allargamento intellettuale dei soggetti in età evoluti-va, del loro procedere esistenziale per salti logici e per sconvolgenti domande di senso.
E infine rimane comunque, al di là dell’ambito del nostro presente argomentare, il “peso”, nella storia della cultura italiana, della cultura umanistica e letteraria signoreggiata dalla grande catena dei poeti della"lingua del si". In fondo è sempre vero che furono i poeti a fondare, ca-nonizzare, imporre la nostra lingua nazionale.
Ma il contenuto formale del codice poetico, la sua esattezza, la sua ricerca di essenzialità, il le-game fra autore e "situazione", il ruolo storico della poesia italiana, “tutto” in sostanza, ci porta ad approfondire la ricerca di una didattica tutt'affatto contraria all'attualismo, alla mistica del rapporto diretto ragazzo/testo, alla post-modernità d'accatto.
Sono cattivi maestri, certo pessimi didatti, a me pare, quelli che volendo affermare la forza dello spirito in un testo, in un autore, commettono il delitto di togliere allo studente il diritto a una reale comprensione, non aiutandolo ad allargarsi, a “portare dentro di se” la forza del poeta che legge e impara a conoscere.
Non stupisce però che pochi siano i testi di riferimento di una adeguata didattica della poesia. A Gentile non servivano per i post-moderni sarebbe troppo faticoso scriverli.
Se è sempre stato più chiaro il diritto a costruire una didattica delle scienze, della matematica-ad esempio- dove l'attualismo doveva cedere più facilmente il passo alla forza del Numero, è ancora una battaglia da vincere quella per affermare il diritto ad esistere di una didattica della poesia.
Pochi elementi qui saranno da riportare - lasciando approfondimenti, conseguenzialità ed esempi ad un secondo prossimo intervento.
In primo luogo una didattica della poesia sembra parente di quella ricerca di integrazione fra istruzione ed educazione, di cui scrive Gerwald Wallnofer nell'introdurre "Società della co-municazione e scuola" di Franco Frabboni. Certo non può sorgere da quegli approcci mutilanti che lui definisce, riprendendo la ricerca internazionale, come basati o sulla trasmissione rigida dei saperi, oppure sulla transazione, sul mitizzato "star bene a scuola."
L'integrazione di aspetti di istruzione con l'irrinunciabile riferimento alle meta educativa più generale può condurre utilmente un passo più avanti.
In primo luogo ad affermare la necessità che l'insegnamento della poesia si rivolga sia ad una sorta di alfabetizzazione primaria circa le conoscenze di contesto, sia ad una forte individualiz-zazione e ad un interscambio emotivo e creativo che riconduca alla capacità e al potere della poesia di formare l'individuo liberando la sua intelligenza.
Proseguendo su questo piccolo “codice binario”, ma non antinomico, alla coppia “istruzione/educazione”, ed alla susseguente coppia “conoscenza contestuale /conoscenza più ravvicinata del poeta, può seguire ancora la, ben nota a chi legge, coppia: classe/laboratorio. Nel definire un progetto didattico sarà possibile dunque aver cura di avvicinare dapprima alla conoscenza dei termini e dei riferimenti di cui un poeta e una poesia sono parte, e forse ancor prima delle parole che il poeta usa.
La conoscenza dei primi elementi del sapere che sono inerenti agli autori ed ai testi non deve essere scambiata per la “pubblicazione di una sentenza”, per un giudizio pregresso, deve essere la base per una padronanza nella lettura diretta e più autonoma da parte di chi studia.
Infne si può, come spesso avviene, prevedere il superamento del solo momento frontale inse-gnante/testo/studente in un percorso di più intensa “comprensione”, in un interscambio -a quel punto davvero intenso e fondato- di emozione e ri-creazione, in un laboratorio elaborativo di nuove scritture.
Laddove è possibile in un ambiente favorevole e predisposto, un sogno sarebbe un' aula didat-tica specializzata, una "aula aperta della poesia" dove gli elementi siano al servizio di una più diretta compenetrazione con il testo, ed anche al gioco e alla prova della “traduzione”, e della nuova scrittura..
Oggi, in parallelo con il recupero con troppe ambiguità dell’imparare a memoria (per aumen-tare le parole conosciute, si dice), si sostiene sovente la scrittura creativa come una prova in se valida e sostitutiva di conoscenza, lettura e comprensione dei poeti.
Non ci pronunciamo sulle virtù intrinseche ai laboratori di scrittura creativa ma, certo, se la prova fosse all’interno ed al termine di un percorso nella poesia il loro valore potrebbe essere più certo.
Non si creda, quasi al termine di un intervento come il presente, certamente rivolto ad una criti-ca di quella “dimissione dalla pedagogia” che sembra oggi così di moda, che si voglia indicare l’approdo ad una fredda ed arida proposta organicistica e rigidamente contestualizzata della poesia.
Al contrario, ancora una volta, una "sana e robusta" programmazione didattica potrà rappre-sentare l'antidoto anche ad un ruolo della mediazione docente tutta tesa alla spiegazione per pa-rafrasi, alla vivisezione del testo fino a smarrirne senso e bellezza.
Torniamo all'Infinito. Riconoscere in Leopardi la forma, imparare a connetterlo con il suo tem-po e con il modo che il suo tempo ha avuto di esprimere l'universale di perenni sentimenti umani, di cui è stato il più alto esempio, ebbene: tutto ciò esclude il risolversi in una mistica fredda della conoscenza.
Andiamo per triadi, come il vecchio Hegel, per farci capire- per carità ! - non per convinta ideologia.
Al conoscere e all'emozionarsi dovrà essere favorito dall'insegnante, il momento del "com-prendere", appunto come predetto: "il prendere dentro".
Ancora una triade: alla pratica dell'attimo, e alle ragioni dell'analisi dovrebbe, è il nostro avviso, succedere una sorta di "grammatica della fantasia".
Si ricorderà: è un famoso titolo rodariano, e Gianni Rodari e il suo, oggi dimenticato, inno-cente “marxismo dell'anima” può ancora dire moltissimo. Può far ragionare su un modo di fa-re scuola con la poesia dove la programmazione sia matrice di libertà , dove lo schema del progetto dell'insegnante tenda alla cura e all'allargamento delle opzioni del discente, e –infine- dove la creatività sia davvero resa possibile da una estensione delle facoltà di parola e di pen-siero.
Gli antichi, De Sanctis, Montale, un pizzico di Hegel, Rodari: abbiamo disseminato, come Pollicino, il nostro percorso di sassolini molto impegnativi,.
Sia permesso a sostegno di una tesi non popolarissima quale quella che andiamo sostenendo concludere con l'aiuto di Mario Luzi.
Il poeta, nella sua ultima generazione di vita, aveva raggiunto una particolare volontà di testi-monianza, una saggia non acquiescenza ad un presente smarrito e incapace di teoria ed impe-gno civile.
Leggiamolo in una delle ultime interviste: "Il fine dell’insegnamento della poesia nella scuola deve trasformarsi in uno strumento di riflessione sui grandi problemi che l'umanità ha affron-tato nel suo cammino culturale. Lo studio della poesia, infatti, va presentato come uno dei momenti più formativi per una discussione sui grandi temi umani. La poesia...(rimanda a una) conoscenza molteplice, complessa, multiforme dell'uomo e della sua storia, del modo con cui un autore ha interpretato il modo unico e originale di abitare la terra proprio e dell'epoca in cui è vissuto. Grande poeta, infatti, non è chi sa padroneggiare tutti gli strumenti linguistici, ma chi attraverso il possesso di tali strumenti ha saputo e sa interpretare un preciso momento storico e culturale."

mercoledì 20 luglio 2005

La poesia non si mangia, per questo serve

Un nostro giovane amico, che colgo l’occasione per ringraziare, sta dedicando le proprie sere, come volontario, a volantinare in Piazza Maggiore e davanti all’Archiginnasio con gli inviti alla prossima kermesse della poesia bolognese, del 25 e 26 Luglio. E’ un ragazzo filippino intelligente e sagace. Ci ha raccontato un aneddoto curioso. Pare che un organizzatore di una serata dell’estate bolognese lo abbia invitato, con cortesia, a volantinare un poco più in la, altrimenti, ha detto, il pubblico accorso per assistere ad uno spettacolo, credendo si tratti di poesia, potrebbe “telare”. Cambiare meta. Non mettersi a sedere. E’ triste, forse un po’ buffo, ma temo che il racconto sia veritiero. La poesia attira così così. La poesia, si sa, non è qualcosa che si mangia. A scuola si legge poco e dopo nulla. Si scrive moltissima poesia, è vero, anche finita l’adolescenza, ma come fatto privato. Leggere ed ascoltare ciò che scrvono gli altri, i poeti “veri”, soprattutto i contemporanei sembra una perdita di tempo. Dopo la scuola, poi è buio completro. Il poeta è considerato una persona bizzarra e triste, oppure, ma non cambia molto, come una specie di “vate” che deve testimoniare le supreme verità. In realtà non è così.Il poeta è uno di noi., uno come tanti, solo riesce a scrivere di ciò che ogni giorno ci addolora o ci da’ speranza in modo migliore, coinvolgente, in qualche modo assoluto. Ma scrive di ciò che ci interessa, non di altro. Diceva Caproni: “ sospetto di una poesia dove non si parli mai di un bicchiere di latte o di una stringa per scarpe”. Cosa voleva dirci? Come già Montale che non bisogna frequentare la poesia come una religiuone ma come qualcosa che ci può arricchire ogni giornpo, perchè vive del nostro stesso quotidiano. Anche il viaggio infero di Dante ci sconvolge, commuove o anche solo intriga anche oggi, quando riporta personaggi che attraversano la sfera della realtà, dalle passioni al mistero, dall’amore alla politica, dalla vita alla morte. Allora se volete sfuggire il caldo, in queste sere, continuate a frequentare la bellissima estate culturale di Bologna.
Ma Lunedì 25 luglio, ed il giorno dopo, alle ore 18 o alla serata, alle 21, se siete diretti al cortile dell’Archiginnasio, al suo arioso cortile quadriporticato, non cambiate obiettivo. Fermatevi all’Archiginnasio e, fra musiche e attori, non disdegnate di ascoltare i nostri poeti. Il ragazzo filippino di cui sopra ed io, e tutti noi della “Casa dei pensieri” ve ne saremo molto grati.

DAVIDE FERRARI

"La Tribuna"
poi raccolto nel libro
"La Bologna che vogliamo"

giovedì 16 giugno 2005

Leopardi a Bologna.

Non vi è nulla di più provinciale che insistere troppo sui rapporti fra una città , la propria, e grandi personaggi che l’hanno vissuta.
Ma noi bolognesi siamo provinciali e, purchè lo si ammetta, non c’è alcun male ad esserlo.
Così è piaciuto nel recente passato, in occasione del bicentenario della nascita, indagare e mettere in mostra la vita di Leopardi a Bologna, magistralmente, dall’Archiginnasio.
La “Casa dei pensieri” ne riparlerà, proprio in quel cortile porticato, dalle trenta arcate, circondato dalla fantasmagoria delle insegne accademiche, il 25 Luglio, nell’ambito di una “due giorni” sulla poesia nella storia e nel presente della nostra città.
Si parlerà anche di Petrarca, di Umberto Saba e di Pasolini che qui nacque. Ma è da prevedere che il fragile e grandissimo Giacomo attirerà l’attenzione più di tutti. E’ un esempio unico di classico amatissimo, che nessuno può dimenticare, nessuno sente lontano, nemmeno a scuola.
Rammentiamo qui alcuni cenni di “biografia locale”, spigolando fra i materiali delle iniziative che gli furono dedicate.
Leopardi è nato, come è notissimo a Recanati, nel 1798.
Era naturale che Bologna, la seconda città dello Stato della Chiesa e sede di una Università antichissima, anche se indebolita dall’incuria e dalla ristrettezza culturale dei Legati pontifici, fosse la prima meta dei suoi viaggi nella vita, lontano dal natio borgo selvaggio.
A Bologna venne più volte tra il 1825 e il 1827, e in un’ ultima breve visita nel 1830.
Lo scambio tra Leopardi e Bologna non fu soltanto culturale ma esistenziale, i rapporti che potè avere condussero sul piano personale ad alcune durature amicizie.
Fu Pietro Giordani, allora famoso letterato, a indurlo la prima volta nel 1825 a venire a Bologna . Vi rimase tredici mesi, molto importanti per amicizie, letture, incontri, scritti e idee.
Giacomo non era un ignoto giovinetto perseguitato dall’incomprensione paterna, era , in verità, già circondato da una prima fama, proprio a Bologna infatti erano state pubblicate, dallo stampatore Nobili, le prime dieci Canzoni.
In un brano famoso Leopardi descrive la grande ospitalità, quasi assillante, dei bolognesi, o meglio della parte alta della città, dei suoi salotti periferici ma accoglienti. La città signorile è “quietissima, allegrissima, ospitalissima”.
Ma Bologna è per lui, come sempre per chi viene da un paesello, ostile, è una città, scura e criminosa, piena di assassini: “Qui si fa continuamente un ammazzare che consola: l’altra sera furono ammazzate quattro persone”.

Se il popolino lo inquieta, come i portici, capaci sì di promuovere conversazione ma, identicamente, di coprire delitti nell’oscurità, un poco meglio va con la buona società.
Era la Bologna di Carlo Pepoli, cui Giacomo dedicò una epistola in versi e di Pietro Brighenti, editore de Il caffè di Petronio, al quale Leopardi collaborò.
Il Conte Pepoli gli fu più vicino di altri, fin dal primo arrivo a Bologna, nel luglio del 1825, anch’egli letterato, anch’egli nobile. Leopardi prese a frequentare assiduamente sia Palazzo Pepoli, sia il salotto della sorella maggiore, la contessa Anna Pepoli Sampieri.

Si inserì anche nelle accademie cittadine, quella dei Felsinei e quella di Belle Arti.
Leopardi cercò di essere organico a questi "mondi", ambì a diventare segretario dell’Accademia di Belle Arti e ne condivise l’impostazione classicista.
La società delle lettere si confondeva con la società patrizia ed i suoi clienti. La Rivoluzione francese era passata e il Risorgimento era un fremito già importante ma non da tutti condiviso.

Della Bologna ecclesiale, piena di chiese e di processioni, nell’anno giubilare 1826, notò “la cosiddetta Festa degli Addobbi”.

“Cosa bella e degna di essere veduta” - la descrisse - “specialmente la sera quando una lunga contrada illuminata a giorno con lumiere di cristallo e specchi apparata superbamente, ornata di quadri, piena di centinaia di sedie tutte occupate da persone vestite signorilmente, pareva trasformata in una vera sala di conversazione”.
Abitava a pensione presso la famiglia Aliprandi, in una casa all’ingresso del Teatro del Corso, che dopo i bombardamenti del 1944 abbiamo perduto, in via Santo Stefano. Il suo quartierino era vicino a quella stamperia dove, dopo che negli ultimi mesi del 1825 aveva messo insieme tutte le sue opere per un’edizione d’insieme delle sue poesie, si pubblicò l’edizione dei Versi del conte Giacomo Leopardi “dalla Stamperia delle Muse” di Strada Santo Stefano 76.
Come tutti i “fuorisede” pensò al paese originario, pure tanto identificato, nelle poesie, col dolore di una esistenza precocemente angosciosa.
“In certe passeggiate solitarie che vo facendo per queste campagne bellissime, non cerco altro che rimembranze di Recanati” .
E come tutti cercò notizie e visito’ i compaesani.
“Qualche giorno fa, passeggiando per Bologna solo, - scrive alla sorella Paolina-vidi scritto in una cantonata Via Remorsella. Mi ricordai d’Angelina e del numero 488, che tu mi scrivesti in una cartuccia la sera avanti la mia partenza. Andai, trovai Angelina, che sentendo ch’io era Leopardi, si fece rossa come la Luna quando s’alza”. Angelina Iobbi era stata la cameriera dei conti Leopardi e a Bologna aveva sposato un cuoco.

Leopardi a Bologna lavora in casa, lamentando la propria debole salute e il “bestialissimo freddo”.Pure arriverà a dare con fatica lezioni private per due ore e mezzo al giorno. E poi scrive e pubblica, come si è detto. Versi ma anche critica.
Il 23 giugno 1826 una sua lettera a Paolina, celebre agli studiosi, annuncia di aver terminato il commento al Petrarca, che pure scrive di non amare più, in nove volumi.

E, naturalmente, a Bologna Leopardi s’innamorò. È il 30 dello stesso giugno.E scrive: “Sono entrato con una donna in una relazione, che forma ora gran parte della mia vita. Non è giovane, ma è di una grazia e di uno spirito che supplisce alla gioventù. Ama ed intende molto le lettere…”. Era Teresa Carniani, quarantun’anni, fiorentina di origine, borghese di nascita nobilitata dal matrimonio con un Malvezzi, erudita. Si avvicinò al giovane poeta che raccomandò all’editore Stella un suo volume di studi ciceroniani. Forse il nome fu spiritualmente galeotto. Teresa era stato anche il nome secolare della sua “Silvia”. Una relazione importante.
Eppure presto la chiamerà “quella strega”.
Per Giacomo non fu mai facile ritrovarsi amato e, forse, amare. Ma sapeva di valere e lieto sarebbe di conoscere il nostro amore , continuo, per lui.

Davide Ferrari

Scritto per "La rivista della biblioteca Borges", Bologna